Gazze e mimi

Gazze e mimi Karina Lickorish Quinn translated into Italian

This is the (mostly) Italian version by Antonio Gambacorta of a short story written (mostly) in English and Spanish by Karina Lickorish Quinn. Read the original on Issue Zero.

I. One for sorrow, two for joy.

L’abuela aveva un cassetto di cachivaches. In inglese si dice knick knacks, ma è una parola troppo spigolosa, troppo nasale, che mi fa venire in mente il Jabberwock e che The vorpal blade went snicker-snack! Knick knack. Snicker-snack. E penso subito agli Snickers™ e ai Knickerbocker glory, alle mutande coi fronzoli e ai Nik Naks™ al gusto di costolette piccanti in buste fluorescenti e gracchianti, mangiati nella nebbia clorosa del centro ricreativo locale.
      No, nessuna va bene, perché per me il cassetto della nonna era sacro. Era nell’angolo in alto a sinistra del suo comò di mogano che teneva quegli oggetti magici. I cachivaches. Una parola mistica. Una parola ch’era un incantesimo. Suona quasi come Cachiche, da cui vengono le streghe, e ha un’aspra musicalità con quella salita e caduta trocaica. È una parola insieme familiare e aliena, come se l’avessi sentita in un sogno o mi fosse stata sussurrata dai morti di là dal velo.
      Il cassetto dell’abuela odorava di mentolo e palline di naftalina. Di Vaporú e di resina d’ambra. Rivestito di feltro rosso, come la teca di un gioielliere, era lì, su quel tappeto rosso, che metteva le cositas che collezionava. Un orso minuscolo di plastica, verde neon, che si era staccato da un portachiavi. Premios di plastica trovati nelle scatole dei cereali. Un assortimento di ciondoli, icone di santi, ventagli in miniatura stile Andaluso. Il cuore sofferente di Cristo, in origami, col sangue che veniva fuori in nastri di crespo rosso. Mira este corazón mío. Il sacro cuore di Cristo.
      Era la sua scatola di trucs, di trucchi. Di amuleti e portafortuna. ¿Porque coleccionaste estas cosas, Mama? Para tí, mi amor. Para tí. Ogni volta che ero a Lima, nei giorni di festa comandata, Mama mi chiamava in camera sua e apriva il cassetto. Mi faceva toccare i cachivaches uno por uno e io me li rigiravo tra le dita, li ammiravo, lasciavo che il loro ánimo mi parlasse, perché potevo averne uno solo. Solo uno di questi oggettini sarebbe tornato in Inghilterra con me come talismano, fino a quando, tra uno o due anni, sarei tornata a Lima, e avrei di nuovo visto Mama.
      Curva su quel cassetto ero come una gazza, e muovevo la testa per osservare meglio quegli oggetti luccicanti. Anche Mama era tutta curva a indagare, uccelli tutte e due. Eravamo due piccole urracas che battevano gli occhi chine sul cassetto magico. In Perù non ci sono gazze. Quando era venuta a trovarci in Inghilterra, Mama le aveva viste saltellare qui e là in giardino e le erano sembrate bellissime. Anche i colombacci le erano piaciuti. ¡Tan gordas! Rellenitas. Le facevano pena le palomitas peruviane, emaciate e sporche, mentre quelle inglesi erano così grasse. Ben pasciute. Ma le gazze erano le sue preferite. Prima di allora, le aveva solo viste nei disegni. Le piccole ladruncole impudenti con cilindro e sguardo scaltro che si trovano nei libri per bambini. Ma queste erano urracas in carne e ossa.
      «Dime, Karinita. ¿Es verdad que son acaparadores las urracas?»
      Le ho detto che credevo di sì. Che una volta avevo visto una gazza con un anello d’oro nel becco. Ora dubito sia successo davvero: era un ricordo inventato. Ma è ancora così vivido.
      Le ho insegnato la canzone: One for sorrow, two for joy, three for a girl, four for a boy… Mama non c’è più. Ma ho ancora i suoi cachivaches in un portagioie accanto al letto, come il ciondolo dell’espíritu santo in forma di colomba, inciso su una piramide di metallo sbiadito, che indossavo il giorno del mio 11+ verbal reasoning. Mentre cercavo di riordinare quella lingua disordinata (Bird is to wing as fish is to swim/fin/tail), mi rigiravo l’amuleto tra le dita e sapevo di avere la magia del cachivache dalla mia parte.

II. Los pollitos dicen «pío pío pío»

Dietro l’angolo c’era un negozio. Lì vendevano le chifle e il gelato Donofrio™ al gusto di lucuma che piaceva tanto a mia madre. E vendevano anche gli adesivi che Mama comprava e mi inviava per airmail con le sue lettere. Incollavo quegli stickers di ballerini e mostriciattoli sulla cartella della Saturday Spanish class, che conteneva i fogli con le canzoni e gli esercizi di grammatica che ci assegnava la signora Rojas.
      A E I O U
      Arbolito del Perú.
      Yo tengo siete años.
      ¿Cuántos años tienes tú?
      Nei mesi passati a Lima, quasi ogni pomeriggio, io e mia sorella andavamo con la nonna al negozio all’angolo per noleggiare video. La sezione per bambini era piuttosto modesta e guardavamo sempre gli stessi film Disney: La Sirenita, Aladdín e El rey león. I film erano tutti doppiati ed è per questo che alcune canzoni le abbiamo imparate solo in castigliano e altre solo in English. Così, a scuola potevamo cantare un “tale as old as time” con i compagni e unirci allo “heigh ho heigh ho” dei sette nani, ma “un mundo ideal” o il “ciclo de la vida” dovevamo cantarle da sole.
      Anni dopo, guardando The Little Mermaid a casa di un’amica, mi sono resa conto che in spagnolo e in inglese le parole non sono equivalenti. Mentre l’Ariel nordamericana wants to be part of your world, l’Ariel latina vuole far parte di lui, cioè vuole far parte del mondo di Eric o, addirittura, parte di Eric. Parte di lui. Part of him.
      Perché non l’hanno tradotto letteralmente? mi sono chiesta.
      Ovvio, Kari, mi sono risposta. Il ritmo delle parole non va con la canzone:
      Part-of-your-world = 4 sillabe
      Par-te-de-tu-mun-do = 6 sillabe
      Non ci entra. It won’t fit.
      Quando traducevo Disney lyrics da sola, seduta cross-legged sul pavimento della sala, stavo analizzando la prosodia, anche se, chiaramente, allora non lo sapevo.
      Fin da piccola sapevo che le cose non si potevano tradurre così. Comunicare richiedeva attenzione. Old MacDonald had a farm in England (E-I-E-I-O); ma la sua fattoria non aveva terre oltremare in Perù. A Lima, «I pulcini fanno «pio pio pio», ma in England fanno “cheep cheep”. Attenzione, non fanno “cheap cheap” e nemmeno “sheep sheep”. In castigliano il suono è «cip cip» che certamente non si può tradurre con “chip chip” in inglese. Immaginate, che follia, i pulcini che raschiano il terreno del loro recinto e cinguettano «patata fritta, patata fritta» e il contadino-pagliaccio Ronald McDonald che gli lancia french fries mentre in lontananza, nei campi, le pecore gridano «bee bee» qua e «bee bee» là, qua una Bee là una Bee ovunque Bee Bee e i cani, sorpresi, esclamano “Wow! Wow!” vedendo le api che danzano ronzando e, in questo labirinto, i cavalli muoiono dal ridere con i loro “Hee Hee Hee” giorno e notte senza sosta (Ee-¡Ay!-Ee-¡Ay!-Oh).

III. Je te plumerai la tête, Alouette! Alouette!

La bisnonna è nata a Parigi, a quanto mi dicono. Quando l’ho conosciuta era già tanto malata, tanto fragile e parlava raramente. Ma le figlie mi hanno detto che è stata una donna formidabile. Tanto tanto tanto intelligente. E calorosa. Una matriarca forte e affettuosa allo stesso tempo.
      Con la nonna, di tanto in tanto, parlavo in francese per rimettermi in contatto con le nostre radici francesi. All’epoca studiavo francese a scuola ed ero sicura di me. Mama mi diceva spesso, Ay Kari, que bonito tu frances. Yo ya me olvidé todito todito. E ridendo, le dicevo Je parle seulement un petit peu, mademoiselle. Un petit petit peu.
      Non capivo come fosse possibile dimenticarsi tan completamente de un idioma, ma sentite! Poco a poco lo sto dimenticando anch’io. Il francese e il tedesco (che ho imparato im Schule en esos tiempos) me estoy olvidando pero el castellano y el inglés, nunca scompaiono dalla mia mente.
      In francese ricordo in particolare le canzoni. Sul ponte di Avignone al chiaro di luna, il mio amico Pierrot balla con una penna che userà per scrivere a Frère Jacques che, come sempre, dorme e dorme e dorme in eterno.
      So leggere il francese. Capisco quasi tutto. Con pazienza e un dizionario posso anche scrivere. Ma se voglio parlare, así nomás, en vivo cara-a-cara, sono arrugginita. Come se un corvo mi avesse rubato le parole dalla testa. Sono scomparse. Sono scomparse.
      Allo stesso modo, in tedesco, I can barely speak anymore: te puedo decir que ich habe zwei Katze und ich wohne in eine Wohnung, little more. But I know how to ask wo die Blumen sind. Yes, about the flowers, I can ask. Quindi, amigo, sag mir wo die Worten sind. I want to know. Was ist geschehen?

IV. Hush little baby, don’t say a word…

Eravamo una famiglia di lingue aggrovigliate. Mis abuelos no hablaban nada de inglés, pero mi abuela en inglés sí cantaba. Le piaceva cantare Oh my Darling, Oh my Darling, Oh my Darling, Clementine! y Que será será, que aprendió de Doris Day. Mi abuelo tampoco hablaba inglés. Lui non cantava nemmeno. Estabamos en su casa y ahí se hablaba castellano (aunque su padre había nacido en Alsace-Lorraine con passaporto tedesco ed era arrivato in Perù, selon ce qu’ils me disent, sans spagnolo).
      Mio padre inglese, con il suo spagnolo imparato nella selva lavorando come ingegnere alla ricerca di petrolio, capiva più di quanto non sapesse parlare, ascoltava le conversazioni con un’espressione di sofferente concentrazione, e non sapeva coniugare i verbi né per soggetto né per tempo. Ma riusciva a leggere gli articoli di El Comercio e a seguire conversazioni su qualsiasi argomento: i prezzi delle azioni, la pesca dell’anchoveta, il pericolo per la democrazia peruviana. A volte era frustrante per lui, credo, voler formulare un pensiero complesso sulla politica o sull’economia, e non trovare le parole. Così si rivolgeva a me e diceva: “Di’ a tuo abuelo…” e io traducevo fino a che non c’era una parola che non conoscevo, e allora mi rivolgevo a un adulto e chiedevo: “Como se dice ‘fiduciary’ en castellano”, e mio abuelo diceva, “Entiendo, entiendo” perché fiduciary/fiduciario, potato/potato. Così, anche se mio abuelo insisteva a parlare solo spagnolo, quando c’era mio padre, Espangliablabamos.
      Mio zio, un pilota, parlava un inglese americanizzato. L’inglese degli aeroporti internazionali. La lingua franca dell’ingegneria aeronautica. Lui e mio padre comunicaban excelentemente in uno Spanglish centrado in a vocabulario y amor compartido de aviation, automóviles e carne grigliata en la parrilla. E con gli altri zii, quelli che non parlavano quasi nemmeno una parola d’inglese, mio padre sembrava perfettamente in grado di comunicare grazie alla birra. Con la faccia paonazza e sudata, senza parole, non facevano che ridere a crepapelle.
      Anche i miei cugini, che frequentavano una scuola bilingue e guardavano Nickelodeon e Disney Channel sulla TV via cavo, parlavano americano. Mangiavano cookies e indossavano sneakers quando uscivano per andare allo store. Ridevano per il nostro accento britannico quando dicevamo war-tuh invece di wah-tur o mum invece di mom. Io e mia sorella rispondevamo per le rime dicendo che noi parlavamo l’inglese corretto. All’inglese. Come si parlava in origine.
      Ma che significava ‘all’inglese’? Nelle Midlands, i nostri parenti inglesi non parlavano come noi. Non pronunciavano le T e schiacciavano le U pronunciandole con la bocca chiusa. Lend uz a quid, luv. Era sempre motivo di discussione che io e mia sorella non parlassimo loik gli altri ‘cuz we was sent a Speech ‘n’ Drama (ovvero a lezione di dizione) per imparare a parlare correttamente (proper). A prolungare le ahs e ad articolare le dentali. ‘Cuz, praticamente (basicall-ay), ti ostacola, dunnit? Parlare male. O almeno, è quello che ci avevano detto (we was told) da bambine. Se la tua gola produce suoni sbagliati non ti fanno entrare a Oxbridge, non ti fanno praticare l’arte forense, non ti fanno entrare in quelle stanze poco illuminate con le mura rivestite di legno e dove il porto si fa girare in senso orario.
      A ripensarci adesso, mi rendo conto che non c’è un modo sbagliato di parlare. Solo modi diversi. Ma i miei genitori sentivano molto il bisogno che parlassimo correttamente. L’inglese di mia madre era troppo straniero. Quello di mio padre, troppo locale. Entrambi sentivano di essere stati esclusi da certi circoli di cui avrebbero voluto far parte. Quindi, eredi del trauma linguistico dei nostri genitori, io e mia sorella siamo state esposte all’arte del parlare proper (figura 1).
      Anche in Perù c’erano modi ‘giusti’ e ‘sbagliati’ di parlare. Non avrei imparato lo spagnolo di chi lo parlava sotto l’influenza delle lingue delle Ande. Avrei imparato lo spagnolo più ‘puro’ possibile. Questa idea di ‘purezza’ linguistica conteneva tutto il peso del colonialismo. Lo spagnolo degli spagnoli era quello corretto. Lo spagnolo peninsulare. Lo spagnolo insulare, isolato da qualsiasi influenza straniera. Specialmente dalle influenze delle ex-colonie.
      Ma essendo cresciuta in Inghilterra, e andando a Lima una volta ogni uno o due anni, non sono stata immersa nello spagnolo abbastanza da distinguere il dialetto dei Limeños dai dialetti di coloro che erano migrati dalla sierra al campo. Ho carpito le cadenze e le abitudini delle empleadas e dei jardineros che lavoravano per i nonni, le prozie e i prozii. Ho assimilato le caratteristiche linguistiche delle loro lingue madri, Quechua e Aymara, che avevano mescolato al loro spagnolo e che, di conseguenza, si erano mescolate al mio. Ho acquisito la suffissazione del nomás per enfasi (Siéntate nomás. Está ahí nomás. El niño es pequeño nomás.); il raddoppiamento delle parole come rafforzativo (El gatito salió corriendo corriendo. Rápido rápido, Mami, el gato salió); e un certo gusto per il gerundio.
      Eppure, l’aspirazione era di parlare uno spagnolo allineato alla penna insulare della Real Academia.
      Ma la mia famiglia non parlava uno spagnolo peninsulare. Quando parlavamo non facevamo ceceo. Casa e caza erano indistinguibili. Non mettevo le thapatos ai piedi e non mangiavo thanahorias e thiruelas. Non coniugavo con vosotros: il plurale di you era sempre ustedes, che fosse formale o informale, in ogni contesto.
      Quando ho fatto il GCSE di spagnolo, a 11 anni, i professionisti avevano discusso se il mio spagnolo era sufficiente. Avrei dovuto imparare a parlare con il ceceo? Il the-theo? Il Thé-théo? Il θe-θeo? Avrei dovuto hablar como vosotros, usando vuestros pronombres posesivos de segunda persona del plural en vez de los nuestros? En vez de, parliamoci chiaro, los míos? Perché questa storia del rovistarmi tra le parole, e tirare fuori questo nome o quel verbo, fissarli alla luce per studiarne la purezza, l’avevo presa sul personale. Com’erano la pronuncia, il taglio, la chiarezza? Parlavo uno spagnolo abbastanza chiaro? Uno spagnolo abbastanza brillante? Era, hablemos francamente, uno spagnolo abbastanza bianco?
      Quando i miei assunsero un insegnante privato perché mi desse qualche ripetizione prima dell’esame, accettai di imparare a usare gli accenti nella scrittura. Fino ad allora non avevo mai saputo o non mi era mai importato come funzionassero. Avevo scritto in spagnolo solo sulle lettere per la posta aerea e sui bigliettini di auguri per mia abuela, mia tía e i miei primos per Natale, Pasqua e i compleanni. Imparare a segnare le mie parole con delle macchiette sulle vocali aveva sempre avuto una priorità inferiore a quella di trasmettere affetto e dispiacere, e quello che avevo imparato a scuola quella settimana, quanto mi mancassero e come non vedessi l’ora de volver a verlos de nuevo.
      Ora, con la prospettiva di un esame scritto che avrebbe giudicato l’accuratezza della lingua su carta, accettai la necessità degli accenti. Confessai al mio insegnante di spagnolo che la mia pigrizia nei confronti degli accenti era forse dovuta al mio anglocentrismo. Dopotutto, in inglese si fa senza. Ma, no. Era arrogante. Forse anche neocoloniale? Avrei imparato ad accentare le mie vocali.
      Ma rifiutai di alterare il mio accento. Mi sembrava, anche a quella giovane età, una violazione. Un tentativo di occupare abusivamente la mia bocca, impalare la mia lingua e farla danzare al motivetto del burattinaio.
      Yo no thetheo.
      Tú sí thetheas.
      Él/ella puede thethear si quiere.
      Nosotros no thetheamos.
      Ustedes thetheen si quieren.
      Si ellos/ellas/ellxs thethean o no, me da igual.

V. He He He JaJa JaJa JaJa

Mi madre aprendió inglese a scuola y después en la Academia Británica perché aveva intenzione di lasciarsi il Perù alle spalle, le sue juntas y dictaduras militari, le sue iperinflazioni e guerrilla, sus bombardamenti, su corrupción, su injusticia e inequaldad. Y lo hizo, estudiando en Madrid, im Salzburg, in Olanda con delle borse di studio. Mia madre sapeva comunicare y hacerse entender in quattro idiomas – English, Castellano, Français, Deutsch. Para ella, siempre gregarious, extrovertida fino all’eccesso, hablar es jugar. Es jouer con les mots. Parler c’est un juego, c’est une joie, un jeu, a joy, a jouissance, una gioia. Id est:
      Parler = a/un(e) J+(o|i|u|e) v (go|y|t|r)
      L’ho ereditata da lei: la capacità di trovare l’estasi nel linguaggio, ma non nel parlare, nello scrivere. C’era un’alchimia nei grafemi sulla carta. Una specie di magia deliziosa nel modo in cui le parole si fondevano, si strusciavano tra loro e si trasformavano in altre (figura 2). È stato molto più tardi, studiando semiotica da adulta e le catene Saussuriane tra significanti e significati che ho cominciato a capire i giochi con le parole a cui avevo giocato nella testa da bambina.
      No quiero decir que yo era special in nessun modo en ce regard. Les enfants in tutto il mondo comienzan sus vidas amando le parole. I loro suoni. La loro abilità di rendere apprehendable questo mondo pieno di meraviglie. Apprehendable. Che può essere compreso. Da prehendere, afferrare o carpire. Da bambini, allunghiamo le nostre manine grassocce per afferrare un mondo sconosciuto, prima con le dita e poi con le labbra e la lingua, esploriamo le cose con la bocca e prima o poi con la voce. Con le parole, infine, impariamo (ci proviamo) ad apprehend e comprehend, come prendre e prender. Con palabras podemos prender este mundo de maravillas. Possiamo afferrarlo. Catturarlo. Accenderlo. Dargli fuoco. Possiamo prendre il mondo. Rubarlo. Tenerlo sotto custodia, magari? Tomarlo prisoner. Hold it preso. Sì, con le parole, infine, spremiamo il mondo, lo appiattiamo, lo facciamo passare nella presse e lo tiriamo fuori. Lo imprimimos, exprimimos y al final queda plano y chiaro.
      Alla familiarità segue il disprezzo. Dimentichiamo la magia di scoprire per la prima volta cosa significa legare un suono a un Ding nel mondo e, con questi suoni, riuscire a condividere con un altro cervello ciò che vogliamo che quel cervello sappia. Mio nipote non ha ancora perso la magia. Cuando ve la luna canticchia Moo-oo-oo-n Moo-oo-oo-n e sembra provare tanta delicia per il suono quanto per quel circolo di luce argentata appesa al cielo. È stato proprio sentendolo canticchiare, e canticchiando insieme a lui, che mi sono resa conto di quanto quel satellite scintillante sia legato nella mia mente a quelle vocali allungate. Ooo-Ooo. Come un gufo in picchiata nel bosco. O un lupo che ulula. O una mucca. (È per questo che la mucca saltò la Moo-moo-moon?) Anche in spagnolo e in francese c’è quell’oo. La luna. La lune. La loona. La loon. Ma non in tedesco, dove la luna diventa der Mond e ci accorgiamo d’un tratto della différance. La Luna è diventata il Mond, le monde, el mundo, la Terra e cos’altro allora? La luna è qui e lassù, appeso tra le stelle, c’è il mondo? Con un trucco da stregone la Luna e la Terra si sono scambiati di posto.
      Le parole scivolano facilmente su altre parole. Sono scivolose, come le barrette di sapone al bar1 bagno. O come un pesce che si divincola per liberarsi, strattonando la lenza, resistendo all’amo. Dev’essere così, immagino, che si verificano i lapsus. Che il conduttore radiofonico presenta Jeremy Cunt invece di Jeremy Hunt. O che, durante una lezione pomeridiana di biologia, l’adolescente, in preda al terrore, dice Orgasmo invece di Organismo. Ma è troppo tardi. La parola salta fuori. Il pesce se la svigna. Se le escapó Moby Dick. E puoi provare quanto vuoi a tirarla su, ma non puoi. La parola è là fuori, che nuota2 nelle immensità azzurre.
      La mia passione per la lessicografia mi è servita quando a scuola gli insegnanti ci davano esercizi di verbal reasoning per prepararci agli esami 11+. Par example:

Sottolinea la parola di quattro lettere nascosta tra altre due parole:
The bird heard the noise and was afraid.
I feel anxious around orchids.
My dog owns many precious ingots.

Sottolinea la parola all’interno della parola:
Fragment
Swordsman
Cupboard

Completa la serie:
HEAR
_ _ _ _
_ _ _ _
_ _ _ _
CHAT

      Questi giochi mi piacevano perché a me sembrava che la lingua fosse fatta per giocare3. Ma gli esercizi non spingevano il gioco lontano abbastanza. C’erano risposte stabilite. C’era risposte giuste e sbagliate. Lettere da sottolineare. Caselle da spuntare. Per me la lingua non era fatta di regole da seguire, organizzate in cassetti ordinati, infilate in un casellario. Era una meraviglia da mettere in mostra, come un pavone che espone il piumaggio, ogni frase una piuma splendente, a plume, una pluma, a quill.
      Dopo aver deciso di crescerci bilingue, i miei genitori si sentirono dire (come spesso succede ai genitori di figli multilingue) che io e mia sorella ci saremmo confuse. Che il nostro sviluppo linguistico sarebbe stato rachitico. Ci sarebbero state, suppongo, secondo questi catastrofisti, troppe parole conflittuali che ci zigzagavano per il cervello perché potessimo afferrarle, prenderle al lazo alla gola e legarle ben strette. Come se le parole andassero cacciate, sopraffatte, decapitate e montate su un muro. Nient’altro che trofei senza vita.
      Forse è vero che, per me, le parole sono selvagge. Si lanciano in picchiata e svolazzano in un pandemonio di ali, cantano e starnazzano, ora cacofonia, ora sinfonia. Ma adoro vederle volare, a volte come uno stormo armonioso, murmuration fluido e calmo, altre volte come uno sciame, disordinato e stridente. Quando il cielo si schiarisce e sono tornate sui loro trespoli, mi piace passeggiare e raccogliere le belle piume che hanno lasciato indietro. Le porto con me e le uso per costruire il mio nido. A volte mi piace tirarle fuori, rigirarle alla luce, ammirare come luccicano e brillano.

SignificanteSbagliatoGiusto
Water (agua)War’a o War-uhWar-tuh
£QuidPound
Oil (aceite)Oy-uwOyl
Love (amor)LuvLahv
Bath (baño)BaffBaa-th
Tooth (diente)Tooff, Tuff o TuthToo-oo-oo-th
Figura 1. Lezioni di pronuncia corretta di parole inglesi
CATSAT(on the) MAT MAR BOTE
CHATSHAT SHIT  SCHIFF SHIP
GATO GATEAU  GÂTEAU  BATEAU
KATZE MATZE MATS  HATSBOOT(E/S)
Figura 2. The cat in the hat sat on the gâteau

1. Caro lettore, questo è un errore di battitura genuino! Ja ja ja!
2. O per meglio dire, nadando nelle immensità azzurre. Nadando perché sta nuotando. Ma anche perché nada-ando perché le parole, slegate dalle altre parole, non hanno significato. Per esempio,
                                                                                      do
                               pie
                           fete
la                                                           ja
3. Bañana. nome – una banana da mangiare domani.
Bañanaremos. verbo – Mangeremo la banana domani.
Te-atro. nome – Tè bevuto prima di andare a teatro.
Te-atró. verbo – Ha bevuto il tè prima di andare a teatro.
Surprice. nome – riso inaspettato.
Surprice. verbo – sorprendere con il riso. “You surpriced me!”

Antonio Gambacorta (tr.)

Antonio Gambacorta is a writer and translator based in Reading, where he is completing a PhD. He translates literature and films and collaborates with Automattic. He has received a publication proposal for a poetry collection in Italian and he is working on a collection of short stories in English.

Karina Lickorish Quinn

Karina Lickorish Quinn is a bilingual, Peruvian-British writer raised in the English Midlands, Lima and New York. She has a BA from Oxford University, an MA from UCL and is about to complete her PhD at Queen Mary University of London. Karina is the Teaching Fellow in Creative Writing at the University of Leeds. Her short fiction features in Un Nuevo Sol, the first major anthology of British-LatinX writers published by flipped eye publishing. Her work has appeared on The Offing, Asymptote, The Journal of Latina Critical Feminism, and Palabritas. She was shortlisted for the 2016 White Review’s short story prize. Her debut novel set in Lima, MANCHARISQA, OR THE DUST NEVER SETTLES, will be published by Oneworld (UK) in early 2022.

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